Mattina.
Risvegli al gusto di un bacio, un sorriso e un “siamo in California, ricordi?”
La macchinetta del caffè in camera prepara autentici beveroni americani e mi ritrovo a sorseggiare quell’acqua sporca al vago gusto di caffeina mentre scosto con una mano la tenda bianca dalla finestra: l’Oceano.
Vicino che sembra di toccarlo con un dito, la dolce melodia delle onde che si infrangono sulla battigia si sente nonostante i vetri siano chiusi e il cielo azzurro si confonde con l’orizzonte in un gioco di sfumature, difficile dire dove sia mare e dove non lo sia più.
La guida National Geographic recita in copertina due parole: San Francisco.
È lì che si va, è lì che mi trovo.
In macchina la traversata verso la città mi sembra infinita: forse perché infinite sono le soste che pongo lungo la via, troppo da vedere e troppo tutto bello.
Una fila di casette a schiera color pastello, tralicci della luce che si intrecciano creando origami nel cielo, scuolabus gialli gremiti di bambini che sorridendo lasciano il viale di casa propria.
Da Pacifica la via più breve è lasciare la macchina alla BART Station di Daly City e lì prendere un treno: che poi, andare fino in macchina a San Fran è fattibile al cento per cento ma il primo giorno uno si fida di quel che ti dicono e prendere un treno con i pendolari che lasciano la periferia per andare a lavorare ha il suo fascino.
Grazie a Alamo rent a car per la macchina!
Powell Station.
La mappa fornita dalla receptionist dell’albergo suggerisce questa come la fermata migliore e così scendiamo, con noi uomini incravattati e donne in tailleur.
La primissima cartolina che porto incisa nel cuore è questa: cielo blu dietro a skyline di grattaceli dietro a fronde di alberi.
Non sono mai stata a New York ma è così che me la immagino.
Eppure questa è San Francisco e allora è proprio vero che viaggiare è meglio di quel che ti immagini.
Comincio a scattare che ancora sono sulla scala mobile e già da quel momento dovevo capire che sarebbe stata una vacanza ad alta, altissima produzione fotografica.
I rumori della città, incroci, semafori; facciate argento e vetro, caffè ad ogni angolo di strada; tram anni settanta sembrano usciti da un film.
Cammino, non so bene dove ma vado.
Animata da quella sensazione che fa sembrare familiari posti che per ovvi motivi non lo possono essere.
Attraverso il Financial District fino a Columbus Avenue, il punto d’inizio di North Beach.
Colazione abbondante very American Style ma di questo vi parlo un’altra volta.
Torniamo un pezzettino indietro verso China Town.
Dicono che si possa imparare molto di un posto osservando chi ci vive: ChinaTown è un micro mondo nel mondo, un quartiere che sembra quasi una piccola cittadina a sè.
Colori e odori si mischiano, le persone si affannano a fare la spesa quotidiana e nell’aria è un tripudio di parole che nemmeno con tutta la buona volontà potrei capire.
Il vecchio e il nuovo, la tradizione e la gioventù: un’identità forte quella di questo quartiere, camminare per le strade di Chinatown presuppone perdersi e dimenticare il dove e il quando.
Tutto è condensato, tanto da vedere in un fazzolettino di asfalto e cemento: gli occhi spesso rivolti al cielo perchè le cose più belle non sono facili da scovare e va bene così, che barba che noia se tutto fosse alla portata di tutti.
Così mi ritrovo a percorrere un vicolo cieco e angusto, di quelli che il sole potrebbe non esserci e potrebbe essere perfino notte fonda dato che la luce qua non arriva.
Un minuscolo barber shop, il proprietario suona un antico strumento a corde; l’aroma dolciastro mi fa capire che sì, l’ho trovato.
The Golden Gate Fortune Cookie Factory è la piu piccola fabbrica dei famosi biscotti della fortuna del mondo: si entra e in mezzo agli scaffali pieni di ogni possibile variante di questi dolcetti si possono ammirare le abili mani di quelle che non sono cuoche ma vere e proprie artigiane che tirano, arrotondano e piegano la sfoglia ancora calda inserendo all’interno il bigliettino portatore di profezie.
Back to the streets, alla ricerca di un portoncino in vetro e una scala ripida.
Salgo i gradini a due a due e non so perchè ma mi sembra di essere in una scena di un film, sarà per la moquette e per lo skyline che si intravede dalle finestre aperte sui pianerottoli mano a mano che mi avvicino all’ultimo piano.
Tin How Temple è il più antico tempio cinese degli Stati Uniti d’America: la dea Tin How, protettrice dei marinai e dei viaggiatori, è venerata da milioni di cinesi che identificano in ella la buona riuscita dell’insediamento cinese negli Stati Uniti, avvenuto attraverso lunghi viaggi via mare. L’odore di incenso pervade ogni angolo e, se chiudo gli occhi, non mi sembra di essere a San Francisco: il viaggio nel viaggio, è questo uno dei motivi per i quali ho amato ChinaTown.
North Beach sapevo già che mi avrebbe conquistata, in qualche modo.
Le caffetterie si susseguono alle pizzerie che si susseguono ai colori della bandiera italiana: questa è la Little Italy di San Francisco, questo è il quartiere degli artisti.
Passeggiare per Columbus Avenue significa respirare un po’ della stessa aria bohemienne della San Francisco di Jack Kerouac, proprio qui hanno trovato ispirazione molti dei suoi capolavori letterari e proprio qui la beat generation è nata.
Premessa: io amo i libri.
E con questa affermazione voglio sottolineare l’assoluta passione verso la carta stampata, l’odore di inchiostro che emana ogni pagina quando la si sfoglia per la prima volta.
Spendo stipendi in posti stupendi e la Feltrinelli è uno di questi, accumulatrice seriale di libri e divoratrice di parole.
Amo leggere, of course. Certi libri portano più lontano di certi biglietti del treno, fanno crescere e fanno sognare.
La City Lights Bookseller è, come dice una targa apposta all’interno, molto più di una libreria.
Fulcro della proliferazione culturale e letteraria degli anni sessanta, entrare e sedersi su una delle sedie di legno sfogliando Big Sur non ha prezzo.
E così ho fatto, perdendo per una mezz’ora o più la cognizione del tempo.
Questo è il vero lusso dopotutto: concedersi il tempo per fermarsi e riflettere, nutrire la mente e fare rifornimento di respiri, quei respiri lunghi e lenti di chi sa quando è il momento di concedersi una pausa.
Passeggio per Columbus Avenue con la guida stretta in una mano: il sole di fine Maggio è caldo e io faccio una scorpacciata di ogni singolo raggio, ogni brezza che scompiglia di poco i capelli è meglio di una carezza.
La National Geographic che tengo in mano dice che a Washington Square è facile trovare anziani italo americani chiacchierare tra di loro in italiano.
Non che io sia una che cerca ad ogni costo l’Italia altrove, anzi: dimenticarmi chi sono e da dove vengo per qualche giorno o settimana trovo sia estremamente terapeutico.
Ma la curiosità prende come sempre il sopravvento e così facciamo: seduti su di una panchina, orecchie dritte.
Il caso vuole che sulla stessa panchina venga a cercare ristoro un signore distinto, cappellino da baseball che cozza un po’ con la camicia con maniche arrotolate.
Questo qua è americano, penso io.
E così venti minuti dopo porto nella mente i saluti per l’Italia che ho promesso al signor Carlo, nato a San Francisco da genitori di Lucca.
E mentre il suo italiano arrugginito ma fluente riecheggia ancora nella testa, penso che questo mondo tanto grande stia diventando un pelo più piccolo mano a mano che accumulo esperienze.
Arrivata a questo punto, smetto di scrivere e rileggo.
Forse perchè le parole fin qui sono davvero tante, vorrei dire troppe ma poi penso che l’accezione negativa di qualcosa che eccede non vale per questa storia, non vale per questo viaggio dove tutte le parole del mondo non basterebbero e in effetti sento che non bastano, questa cosa che le emozioni non si possono comunicare con esattezza precisa deve finire e alla svelta.
Forse perchè leggendo rivivo parte di quei momenti e immagino chi avrà la voglia e la pazienza di arrivare fino a qui: riuscirò nell’intento di passare quelle sensazioni, quell’entusiasmo, quella bellezza?
Riprendo il racconto ma cerco di essere sintetica, lo prometto: lo devo a tutti voi.
Salutato il signor Carlo percorro Genoa St. (it feels like home!) e non mi dilungo sulla meravigliosa vista che da qui San Francisco mi regala: i famosi sali-e-scendi ripagano ogni salita, e che salita, con cartoline da scattare con gli occhi e custodire per sempre nel cuore.
The Coit Tower è uno dei punti panoramici della città: si sale con un ascensore fin sulla cima e la vista a trecentosessantagradi è ciò che ogni selfie taker potrebbe chiedere per il selfie perfetto.
Si vede tutto, ma proprio tutto, e la sensazione è quella di toccare con lo sguardo il cuore vibrante della città che trasuda da ogni angolo, momento tangibile del siamo qui e siamo ora.
Si scende, tanto e si sale altrettanto: Lombard Street sarebbe una via come tante se non fosse per quel pezzettino finale che cambia tutto.
Eletta la strada più tortuosa del mondo, il capannello di turisti intralcia la viabilità già messa a dura prova dal via vai di autovetture che procedono a passo di lumaca: tutti vogliono passare da qui, tutti vogliono provare l’ottovolante reale più famoso del mondo.
Il sole è tiepido e dalle prime luci del mattino, quando abbiamo fatto armi e bagagli e siamo partiti da Pacifica dove alloggiamo in albergo, sono passate diverse ore.
Scendiamo verso la costa, unico punto di riferimento l’Oceano: andiamo a vedere com’è da vicino.
Sosta ristoro da Ghirardelli Square: un tempo antica cioccolateria italiana, ora vivace raggruppamento di esercizi commerciali.
Giù ancora, verso i moli: il vento si fa violento e allaccio il Kway: essere nata vicino al mare ha i suoi benefici, so esattamente come cambia il tempo e non mi faccio cogliere impreparata.
Non è la prima volta che mi imbatto nella parola Pier: vi ricordate a Brighton, in questo post?
I moli si susseguono lungo l’Oceano, camminano paralleli alla costa e si insediano in perpendicolare verso l’ignoto orizzonte marino, ovunque c’è odore di risacca e profumo di pesce alla griglia e chiacchiericcio.
Potrei parlare della vista verso l’isola di Alcatraz e della luce aranciata del sole che bacia il suo contorno e di come non esista una foto che sia una in grado di riprodurre quello spettacolo fatto di colori e natura e rumore del mare e gabbiani in volo; e lo sto facendo, nonostante mi sia ripromessa di essere sintetica.
E’ che quando vedi tanto bello vorresti chuderlo tutto in una borsa, afferrarlo col palmo della mano e riporlo al sicuro dove il passare del tempo e gli sbiadimenti della memoria non arrivano.
Dato che non è possibile, ecco il mio antidoto per il tempo che passa e i ricordi che si affievoliscono: scrivere.
Le gambe ormai vanno da sole: non c’è stato un momento in cui abbia pensato di prendere un tram o un taxi o qualsiasi altro mezzo di trasporto.
Sono ancora quel tipo di viaggiatore convinto che, dove possibile, camminare sia il miglior modo di esplorare.
Calpestare letteralmente terre lontane, mischiarsi tra gli autoctoni e perdersi tra incroci e vie non segnate sulla mappa; chiedere indicazioni alle persone, non perchè non mi fido del GPS e delle varie app sul telefono ma perchè sentir parlare di una città da chi ci vive ha tutto un altro sapore; camminare e decidere quando e dove fermarsi per fare una fotografia o solamente per concedersi un momento di pura contemplazione, da qui il tramonto è tutta un’altra storia e tra cento metri è tutto uguale ma diverso.
Pier 39 è decisamente IL molo di San Francisco: la fiumana che si riversa davanti all’entrata lo fa capire subito e mi butto nella mischia anche io.
Alla fine questi moli sono dei raggruppamenti di attività commerciali, negozi di souvernir e angoli dedicati a leccornie di ogni tipo per chi avesse voglia di rilassarsi difronte all’Oceano.
Girovaghiamo tenendo le orecchie ben aperte alla ricerca di quel suono inconfondibile che ci condurrà verso una delle attrazioni maggiorni di tutto il Fisherman’s Wharf: la colonia di leoni marini che si è stabilizzata nella parte occidentale del Pier. Avevo letto e visto foto al riguardo ma trovarseli davanti è stato surreale: la loro placida siesta, cullata dai tiepidi raggi dell’ultimo sole, si staglia contro la vista delle abitazioni di San Francisco in lontananza.
E per quanto possa pensare che sia strano e incredibile, penso che certe cose non basta leggerle: bisogna viverle.
Il mio primo giorno a San Francisco finisce qui, ufficialmente.
Ufficiosamente continuerebbe ma vi risparmio la storia del basket da ventiquattro mini donuts, dell’acquisto di una maxi felpa che avete già visto in questo articolo, della camminata verso est per tornare verso casa quando in realtà dovevamo andare dalla parte opposta, dell’Iphone che si è spento lasciandoci senza mappa e senza GPS, dell’ultimo treno per l’intera giornata preso per pura fortuna, del ritorno a Pacifica e della cena saltata perchè erano le dieci e trenta di sera e non c’era un locale con la cucina aperta manco a pagarlo.
Non c’è avversità tale da offuscare la piena sensazione che lascia nel cuore una giornata vissuta al mille per mille.
#Californiaonyourown, San Francisco: day one.
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